Nato a Genova, si occupa da oltre quarantacinque anni delle tradizioni musicali della Liguria e delle aree confinanti. Ha raccolto centinaia di documenti sonori corredati da numerose conversazioni con cantori, suonatori, narratori depositari della memoria popolare.
Ha realizzato, sull’argomento, trasmissioni radiotelevisive, organizzato incontri, scritto numerosi saggi e tenuto relazioni in Italia e all’estero. Da ricordare i due convegni Canterini all’opera, realizzati in collaborazione col Teatro Carlo Felice di Genova (1994 e 2000), ai quali hanno partecipato otto squadre di canto.
TRALLALERONLINE: Cosa vuol dire essere etnomusicologi oggi?
MAURO BALMA: In un mondo dove tutti sono in contatto con tutti e sbiadiscono i ”segni forti” delle musiche di radicamento, vuol dire avere a che fare con realtà musicali estremamente variegate: interagire con cantori e suonatori tradizionali, ma anche con musicisti professionisti che vivano delle musiche che ripropongono e trasformano, oltre a conoscere e discutere di musica e culture musicali con ricercatori di diverse estrazioni e differenti collocazioni. Molti etnomusicologi si rivolgono a repertori “esterni” come il jazz, la musica di consumo e ovviamente la World Music, anche nella convinzione che non ci sia poi più molto da ascoltare e raccogliere nel campo delle musiche di tradizione orale. In parte è vero perché le mutate condizioni sociali, lo spopolamento di intere aree del territorio, la dispersione e il diverso livello culturale delle nuove generazioni rispetto a quello dei cantori e suonatori più anziani, rendono impossibile quel contatto nel cui contesto la musica nasceva e moriva. Nonostante ciò, non si deve mai generalizzare: materiale nuovo se ne può sempre trovare.
TOL: Quanto e cosa è cambiato oggi rispetto ad allora, nell’ambito della ricerca etnomusicologica sul campo?
MB: Il panorama è cambiato molto sotto diversi punti di vista: mi viene in mente il notevole risparmio di spazio e fatica che il digitale permette rispetto ai vecchi registratori a bobina. In particolare penso al periodo delle mie ricerche sui concerti di campane, quando dovevo trasportare su per le infide scalette dei campanili un registratore alimentato da otto torcioni (quelle belle pile grosse!); inoltre, non volendo portarsi dietro il Revox a bobine grandi (cosa che qualche volta ho pure fatto), bisognava fare i conti con la durata di quelle più piccole, per cui si rimaneva sempre in uno stato di apprensione sperando che “ci stesse tutto”. Sul piano metodologico è cambiato il modo di affrontare la ricerca sul campo. Si è dedicata sempre maggior attenzione ai luoghi e alle persone, quindi più che sul “dove e quando” ci si concentra di più sul “come e perché”. Mi viene in mente una bella definizione della nostra disciplina dovuta a Jeff Todd Titon: Etnomusicologia come studio delle persone che fanno musica.
TOL: Il trallalero genovese è ed è stato per te un’autentica missione. Da cosa è stata motivata questa scelta?
MB: Beh, indubbiamente c’è stata la fortunata combinazione di trovarmi “in casa” uno splendido modo di cantare unico al mondo, che ti affascina e non ti molla più. Il bello del trallallero è che lo puoi osservare sotto gli aspetti più differenti: come spettacolo, come storia di costume, come repertorio da trascrivere e analizzare. Funziona sempre! Puoi decidere di volta in volta quale ruolo rivestire: spettatore, studioso e (quando capita) canterino “intruso”, per comprendere meglio quali siano i meccanismi all’interno del cerchio.
TOL: Raccontaci qualche aneddoto riguardante gli incontri con le squadre di canto
Nel
canto di squadra esistono e
voxi,
che si comportano un po’ tutti da protagonisti, com’è normale
per i solisti di qualsiasi genere musicale. Ai relativi capricci,
insofferenze e malintesi si aggiungano oggettive difficoltà legate a
problemi di salute, familiari, logistici e si avrà un quadro
completo. Da qui i numerosi “mal di pancia” da trallalero,
causati per esempio da improvvise defezioni, spesso seguite da
provvidenziali e volenterosi salvataggi da parte di altri canterini o
di pubbliche esibizioni in bilico, che popolano i miei diari alla
voce Trallalero.
Quando ti senti dire: e
vabe’, quarcösa inandiëmo…
non ti senti mai del tutto tranquillo! Non entrerò però nel
dettaglio di nessuno di questi episodi.
Ricordo
invece qualche avventura di trasferta come quella con i Canterini
Centro Storico a
Laives (BZ) del 1989. Io ero già lassù, impegnato in una relazione
sul trallalero, quando vidi arrivare un pullman dal quale scese un
adirato Miliëto
bofonchiando: ’stochì
o l’ha fæto a guæra d’Africa!.
Sempre in tema di trasporti di dubbia affidabilità, mi ricordo di
aver preso parte con la Mignanego
a un festival tra le montagne del Tirolo (Obergulg, 2002),
utilizzando un pulmino che già a ridosso del passo dei Giovi
“ansimava” in modo preoccupante: come sia proseguito il viaggio è
facilmente intuibile! Meglio il più sicuro treno per Innsbruck
sempre con la Mignanego
(1993), accompagnati da fiaschi di vino, fette di formaggio e canti
in libertà, richiesti a gran voce (anche) dai passeggeri.
TOL: All’attivo hai molti anni di collaborazione con Edward Neill. Puoi raccontarci della tua attività di etnomusicologo insieme a lui?
MB: Ho conosciuto Edward Neill (1929 – 2001) nel 1970, ma solamente nell’anno successivo abbiamo stretto i contatti: erano già nati in me interessi verso le tradizioni musicali e con lui fui in grado di iniziare a svilupparli. Mi piace far risalire l’inizio delle mie ricerche al 21 marzo 1971, quando andai con lui a Trensasco, dove avremmo dovuto scoltare un gruppo di canterini che avevano scelto come nome Vecchi Canterini di Sant’Olcese. C’erano o Quan de Fontann-arossa da contralto, o Tëgia da primo, o Gin da chitarra, o Parpella da controbasso, oltre, naturalmente, ad un certo numero di bassi tra cui un certo Faveto padre di un altro canterino (Sandro), basso anche lui. Era una giornata orribile e nella “gloriosa” spyder di Neill pioveva attraverso il tetto bucato dal lato del passeggero e così dovetti stare in macchina con l’ombrello aperto!
Sempre in tema di registrazioni “storiche” effettuate con lui mi piace ricordare quella con un gruppo estemporaneo qualificatosi come Vecchi canterini della Valbisagno, effettuata alla Ligorna presso una non più esistente Ostaia do Tillio omaxelâ: da primo c’era il mitico Luigìn o Gandolfo e tra i bassi o Zanfera che cantava Questa l’é l’osteria della Stella / dove c’è il vino buono e la padrona bella. Ho frequentato Neill per trent’anni, tra alti e bassi dovuti a qualche incomprensione, (sempre superate!) e sostanzialmente legate ai suoi comportamenti caratteriali oltre a differenze di vedute e di impostazione, relative alle ricerche sul campo (mai superate!). Tali differenze non hanno comunque impedito la realizzazione di molti progetti in comune. Voglio ricordare tra le iniziative organizzate insieme quella dell’aprile 1972, dove nel salone del Conservatorio Paganini (all’epoca allocato nel Palazzo della Meridiana) avevamo fatto ascoltare diversi brani della tradizione ligure nonché, oltre a una performance dal vivo dei canterini della Nuova Pontedecimo. La presenza di Neill è stata fondamentale per far conoscere e muovere l’attenzione verso i repertori della nostra Regione: il Trallalero, i concerti di campane, i canti delle Confraternite, i canti tipici dell’entroterra ligure. Io ho ricambiato quanto da lui ricevuto facendogli conoscere negli anni Settanta diverse realtà della tradizione. Lui registrava col suo Nagra, cosa che io non ero ancora in grado di fare.
Voglio anche ricordare, per quanto mi riguarda, la serie di incontri accompagnati da sedute di ascolto, in questo caso di musiche da concerto, nel suo studio di via S. Luca 11, che lui chiamava “pomeriggi modali” perché basati essenzialmente su musiche inglesi aventi svariati punti di contatto con le tradizioni popolari. A volte ci si vedeva a pranzo con l’intenzione di lavorare nel pomeriggio, intenzioni non di rado tradite a causa del prolungarsi della permanenza a tavola, a volte conclusa con qualche bicchierino di troppo. Tornando al tema più specifico della musica popolare, quello che più ci ha separato è stato il suo essere legato in qualche modo alla tradizione etnomusicologica inglese e all’International Folk Music Council, dove la facevano da padrone le definizioni di “autentico” e “genuino”. Neill era rimasto fedele a quest’impostazione, continuando ad applicare i concetti di “autentico” e “non-autentico” anche in relazione al repertorio del trallalero, il quale, specie se pensiamo ad un modo di cantare urbano, non credo possa esserne soggetto.
Tuttavia
questo accento posto su ciò che è “autentico” è stato molto
importante per il rilancio dei trallaleri
antichi
all’inizio degli anni Settanta, ancora sepolti sotto il repertorio
“da palco” rappresentato dalla canzone d’autore genovese. Il
trallalero
veniva allora usato semplicemente per scaldare la voce prima
dell’esibizione “vera e propria”. Neill spesso insisteva
affinché le squadre cantassero esclusivamente trallaleri e
trovandomi inizialmente allineato su questa posizione.
Quest’insistenza, unita al fatto che al di fuori di Genova i
trallaleri venissero molto apprezzati, fece sì che i canterini
diventassero ricercatori di se stessi e iniziassero a fare a gara a
chi ne conoscesse di più. Credo di aver realizzato, il primo
concerto di soli trallaleri nei primi anni Settanta al Castello
d’Albertis di Genova, nel contesto di Genoa
Folk
con la Squadra
della Nuova Pontedecimo;
mi pare che il presentatore fosse Joe Sentieri. Successivamente mi
allontanai da questa posizione:
dal
momento che finalmente il repertorio più “tradizionale” era di
nuovo in campo, trovai fosse giusto che si cantasse tutto; a onor
del vero anche per amuentare la varietà dei canti da proporre in
concerto. Neill su questo non fu mai d’accordo.
Alla sua scomparsa sono riuscito a far acquistare dalla Regione Liguria tutto il materiale delle sue ricerche sul campo (1968 – 1989) e l’intera sua “biblio-discoteca” ricchissima di suoni di quello che potremmo chiamare “repertorio etno”.
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